I media hanno provato a spiegarci che cosa sia un hipster. I giornali hanno proposto il solito manichino idealtipo (naturalmente maschio) con frecce o didascalie a indicare qualche caratteristica estetica. Per gli hipster le didascalie si soffermano su baffi ironici o barbe incolte, occhiali da foto segnaletiche di pedofili nel 1975, iPhone, jeans stretti, biciclette a scatto fisso, tatuaggi, magliette col collo a V, poi ci sono i social network, siti musicali, gruppi di riferimento e pratiche condivise. Tutto quello che è stato scritto sugli hipster è stato scritto sulla bohème in generale. è sempre facile, quanto inutile, spiegare la bohème partire dai manichini, bisognerebbe invece partire dai luoghi (nel caso degli hipster da Williamsburg, Brooklyn) e dal loro valore immobiliare, ma questo è un terreno che non affronterò, perché annoia i lettori.
Gli hipster sono una scena nutrita di una quantità spropositata di rimandi alla storia culturale dell’Europa e degli Stati Uniti dalla fine dell’Ottocento fino ad Oggi (partendo dal nome che designava gli afro-americani stilosi negli anni Quaranta). Questa enormità di rimandi, conseguenza del fatto che in internet si trova di tutto, rende formalmente impossibile stabilire delle linee guida stilistiche ed estetiche, come invece era possibile fare per alcune subculture alla fine del secolo scorso. Ogni tentativo di stabilire cosa è un hipster in generale, si scontra con l’incontro con qualcuno che è percettibilmente un hipster, ma che non ha nemmeno una delle caratteristiche utilizzate per descrivere l’hipster in generale. Un hipster può essere benissimo qualcuno nato a Brasilia, vestito come un operaio irlandese appena sbarcato a Liverpool per sfuggire alla grande carestia della patate del 1847, che ascolta soltanto musica jazz prodotta in Persia durante la dittatura dello Shah ed una conoscenza spropositata del calcio polacco.
Questo ha delle conseguenze importanti per il mercato: se vado in una delle catene di abbigliamento svedese, ad esempio quella che ha per nome due uniziali unite da una congiunzione, e vedo una “camicia da hipster“. Arrivato a casa, lo specchio restituisce l’immagine di un triste imitatore di un hipster. Ecco però che mentre tento di liberarmi dalla camicia da finto-hipster essa comincia a sprigionare una nuova luce simbolica e si trasforma in una “camicia da finto-hipster indossata ironicamente come se fosse una camicia da hipster”. Tutto questo può essere spiegato facilmente in relazione a determinati contesti semiotici, rimandi culturali plurimi, costellazioni spaziali etc… secondo la disciplina universitaria che preferite (altrimenti aprite a caso un libro di Slavoj Žižek, il filosofo preferito dagli hipster, e voilà).
Rivista Argo, VIXI, Novembre 2011 Recanati-Ancona, pag. 55 -56