L’origine del tamarro si perde nella notte dei tempi. E lui per farsi luce già allora si vestiva catarifragente come un operaio dell’Anas. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il tamarro non è un Made In Italy, ma un’importazione dal Medio Oriente. Deriva da tamar, pare, che in arabo significa “venditore di datteri”. La sua diffusione in Italia avvenne più o meno così:. Un giorno, uno scafista attraccò la sua carretta sulle rive dell’Italia del Sud e cominciò a far scendere un comitiva di persone. I nuovi arrivati furono accolti con il calore tipico degli indigeni, che tentarono di appiccare fuoco agli ospiti. Tra i malcapitati vi era un certo Tamar che disse di conoscere il segreto della dolcezza. Indossava un turbante a pois gialli e rossi. Tamar tirò fuori da certe ceste che si era portato dietro un frutto essiccato e rugoso come la pelle di vecchia e lo propose agli indigeni. Una volta in bocca il frutto si sfaldava rilasciando un sapore dolce e ricco. Erano datteri e piacquero a quegli antichi popoli italici, tanto che risparmiarono la vita a Tamar e gli concessero di esercitare sul loro suolo la professione di venditore di datteri. Tamar era un first-comer, il prodotto che offriva era innovativo e di qualità, il prezzo competitivo, perciò in pochissimo tempo mise in piedi un’intera piantagione di palme da dattero, la cui fama varcò i confini del paesino. Un signorotto locale aveva una figlia così bella che poteva nutrirsi solo di lingue di cardellino e brodo di giuggiole. La ragazza, tuttavia, era nauseata dal solito cibo e desiderava nuove emozioni in cucina. Così quando si venne a sapere di Tamar, il venditore di datteri andò ella stessa nella sua bottega per una degustazione. Tamar, ormai ricco e famoso, non era però di buon umore e da qualche giorno faceva queste riflessioni: «Tamar, ora che sei ricco e famoso non sarebbe meglio se ti trovassi una moglie? Sei giovane e lavori tantissimo. Ma gli anni passano. A chi trasmetterai le tue sostanze, visto che non hai figli? Chi ti darà la gioia di piccoli Tamarrini che corrono all’ombra delle piantagioni? Conosci il segreto della dolcezza, ma a che serve la dolcezza se non hai l’amore?» Mentre faceva queste riflessioni capitò nella sua bottega la splendida figlia del signorotto locale che disse: «Straniero, ho sentito dire che conosci il segreto della dolcezza» Tamar fu folgorato dai sottili capelli della ragazza, dalle sue guance rosee come la pelle di un neonato, dal modo in cui le vesti si adagiavano sulle forme del suo corpo. Le incartò quindici chili di datteri e glieli regalò, poi inchinandosi le chiese se non le andava di uscire con lui… qualche volta. La fanciulla rispose: «Straniero… ma cos’è quel cavolfiore a pois che porti in testa?» e se ne andò lasciando lo schiaffo della propria bellezza sulla guancia magrebina di Tamar. L’indomani Tamar si bardò con i suoi vestiti migliori: una tonaca fuxia con dei lustrini, un mantello giallo fosforescente e delle babbucce rosse con la punta arricciata d’in su. Ma il tocco di classe era un turbante da festa, un copricapo d’argento glitterato che aveva lo stesso effetto delle luci stroboscopiche in discoteca. Andò alla casa del signorotto con una fornitura maxi del frutto della dolcezza e chiese udienza. Il signorotto gliela concesse e un quarto d’ora dopo, mentre sorseggiavano del caffè, Tamar fece la sua proposta. «Gentile don Ciccio, si degni di guardare fuori dalla finestra» Don Ciccio era il nome del signorotto locale e guardò fuori dalla finestra e rimase piuttosto meravigliato nel vedere un branco di cammelli che pascolavano serenamente nel giardino. Si voltò interrogativamente verso Tamar. «Sono tutti vostri, se mi concederete la mano di vostra figlia» disse Tamar sorridendo. «Sono onorato» disse don Ciccio «Ma…» «Non bastano? Ne aggiungo altri cento» «Ma…» «Ok, ok, facciamo altri duecento e una fornitura a vita di frutti della dolcezza, va bene?» «Caro amico» disse Don Ciccio «Non è la quantità a disturbarmi. È che dovremmo sentire cosa ne pensa mia figlia» La figlia sopraggiunse, in compagnia delle sue guance rosee come la pelle di un neonato, e Don Ciccio le spiegò la proposta di Tamar, sottolineando gli innumerevoli vantaggi di possedere quattrocento cammelli e una fornitura di datteri a vita. «Ma babbo» disse lei «Come potrei mai amare uno che sembra vestito da carnevale? Tutta la gente riderebbe di me, se andassi in giro con un tizio che ha un disco volante in testa!» «Signorina!» disse allora Tamar «Quello che ho sulla testa non è un disco volante ma un turbante. E nel mio paese questo turbante è segno distintivo di signorilità e saggezza!» «Sarai anche ricco e saggio, ma ti vesti come uno scemo» disse lei. Tamar allora se ne andò portandosi via i cammelli, con sommo rammarico di don Ciccio. Per tre giorni e tre notti Tamar pensò alla fanciulla e più ci pensava, più le parole di lei lo tormentavano: «Sei vestito come uno scemo! Sei vestito come uno scemo!». All’alba del quarto giorno ne venne a capo: se il problema era solo questo, non doveva che cambiarsi vestiti, no? E così fece. Diede un’occhiata in giro, si fece un’idea su cosa era considerato trendy quell’anno. Entrò nel primo negozio Diesel e chiese alle commesse di rifarsi il look. Rimase dentro quattro giorni ma quando ne uscì era un altro. Indossava dei jeans strizzapalle con sgambatura a sigaretta, una felpa giallo fosforescente con la scritta “Ne vuoi? Ce n’è”. Un giubbotto in simil pelle con delle fantastiche frange da cow-boy lungo tutte le cuciture. Le calzature erano delle stilosissime scarpe dai colori sgargianti con delle suole che sembravano delle palafitte (“zeppe” le aveva chiamate la commessa). Negli occhi di tamar brillava la gioia della lucertola del deserto dopo aver cambiato la pelle e sulla sua testa troneggiava un copricapo in vero pelo di furetto, stile David Crocket. Si guardò allo specchio e non potè trattenersi dal dire: «Sono Aziz di nome e di fatto». Poi andò dal parrucchiere. Così azzizzato ritornò alla casa di Don Ciccio con il seguito di cammelli (cosa di cui Don Ciccio si rallegrò assai) e chiese nuovamente la mano di sua figlia. Lei appena lo vide, non lo riconobbe. Tamar allora si tolse il copricapo ed esibì il suo taglio a nido d’uccello: era rasato dai lati mentre sulla sommità della calotta cranica torreggiava una siepe di capelli mesciati, alta dieci centimetri, che rimanevano sparati all’insù grazie ad un gel dalla formula innovativa che conteneva del cemento armato. Con il cappello di furetto sotto il braccio e un sorriso disarmante sulle labbra, Tamar chiese: «Allora?» «Uhmm» disse la fanciulla e poi disse «Uhmm» e poi ridisse: «Uhmm». Don Ciccio che aspettava una risposta con ansia le chiese di spiegarsi meglio; allora la fanciulla parlò così: «Caro venditore di datteri, ti sei comperato dei gadget alla moda. Ti sei tagliato i capelli come un discotecaro. Hai un cappello che farebbe invidia a chiunque. Mi stai simpatico e mi fai un sacco ridere, ma non potrei sposarti nemmeno se venissi vestito da papa. Perché sotto i vestiti c’è sempre Tamar, il venditore di datteri e io sono una ragazza trendy» L’occhio di lucertola di Tamar s’intristì molto a sentire queste parole. Raccolse i cocci del suo cuore, si schiacciò in testa il suo copricapo di furetto, fece un fischio ai cammelli e ritornò verso il paese, giù di corda come una chitarra senza il mi cantino. Mentre camminava pensava così: «Ah, Tamar, sei solo e povero» aveva infatti venduto la sua piantagione di datteri per comperare i vestiti della Diesel e i cammelli da regalare al padre della fanciulla «E la gente qui non ti stima per via del tuo lavoro. Non sarebbe meglio se tu non fossi mai venuto in Italia, nel paese del fashion? Non stavi forse meglio nel tuo paese di nascita? E ora cosa farai di questi quattrocento cammelli?» Stava camminando per la sua strada, rigirandosi questi tristi pensieri, quando udì un fischio sguaiato e delle urla sbarbine: «Ahò, appezzo de figo? Sì, dico a te, abbello de mamma. Dove te la zippi con i tuoi boys? » Dall’altro lato della strada una ragazza lo salutava con la mano. Indossava certi pantaloni arancio fosforescente che resistevano appena alla straripante generosità del suo culone. Un bomber lucido e nero come un sacchetto dell’immondizia e delle zeppe che la facevano sembrare un trampoliere da circo. Ma il dettaglio che accese le fantasie di Tamar era la gomma da masticare. Masticava con la sensualità di un cammello e ogni tanto faceva delle bolle di ciunga che esplodevano lo schiocco di baci appiccicosi. Era Domenica, figlia del meccanico di paese, detta più spesso Aaaaaddomé, cozza truzzarella, e Tamar nella sua conturbante cammellosità la trovò bellissima. «Minchia raga, ma lo sai che sei proprio un bel manzo? Cioè, raga, che stile le tue zeppe. E le frange! E il cappello di furetto. Cioè, raga, sei troppo un mix tra sensibilità mediterranea e überfashion» «Signorina, sono onorato di…» «Signorina? Ma come minchia parli, raga? Cioè, in quale disco sei andato a scuola? Non ti ho mai visto da queste parti» Quando Tamar le rivelò di essere il venditore di datteri, la cozza non ci voleva credere. Così lui le spiegò la storia dall’inizio. La cozza gli disse soltanto: «Stai scialla» e lo baciò. Quella stessa notte gli insegnò molte cose che lui nemmeno immaginava e lo fece innamorare di sé. Si fidanzarono. L’indomani lui cominciò a frequentare il bar del paese e quando raccontò in giro le sue prodezze sessuali con la cozza divenne una delle colonne culturali dei clienti. Nel frattempo trovò lavoro come apprendista meccanico nell’officina del padre di Aaaaaddomeé e anche lì si guadagnò onore trasformando una vecchia Uno sgaruppata in un bolide da corsa. Quando aggiunse il dettaglio pittoresco di certe tendine con l’immagine di Jim Morrison, i ragazzini cominciarono a venerarlo come un dio. Tutti gli copiarono la pettinatura a nido d’uccello e quel modo geniale di maneggiare donne e motori. Lo ammiravano così tanto che smisero di chiamarlo Tamar, il venditore di datteri, e lo chiamarono Tamar, il trendsetter. Visse per lunghi anni in compagnia della moglie cozza e dei quattrocento cammelli. Morì molto onorato, dopo aver messo al mondo una conigliata di figli.